Patrimonio Storico-Culturale

Patrimonio

 

 

Di seguito la ricognizione completa di tutti gli elementi di particolare pregio architettonico, storico e culturale per tutti i 29 comuni del Parco Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese effettuata nell’ambito progettuale, completa della documentazione fotografica allegata alle schede informative come di seguito riportate.

 

 

 

 

 

COMUNE DI ABRIOLA

Il paese alle sue origini subì diverse dominazioni, prima fra tutte quella araba, seguita da quella Sveva e Longobarda. In seguito divenne feudo e possedimento di diverse famiglie feudali. Interessante nel paese è la chiesa Madre del 1400, nel cui interno si possono ammirare gli affreschi della volta centrale, la statua lignea della Madonna delle Grazie del XV sec., una tela raffigurante la Madonna col Bambino del Pietrafesa ed una croce processionale in argento del 1400. Vicino all’abitato è possibile visitare il Santuario di Monteforte, nella cui chiesa si possono apprezzare interessanti affreschi del XII, XIII e XVI sec. A pochi chilometri dal paese si trova la “Piana del Lago”, un’ottima pista da sci che in inverno è meta obbligata per i turisti amanti della neve. Fra il monte Maruggio e il monte Arioso è situato il “Rifugio della Maddalena”, circondato da un suggestivo bosco, nel quale, secondo una antica leggenda, avvenne il martirio di San Gianuario, vescovo di Cartagine.

PALAZZO MARSICO

La contrada dell’Arioso è un piccolo borgo agricolo di circa un centinaio di abitanti per la maggior parte dediti alla pastorizia e all’agricoltura che dista 21 km dal centro di Potenza ed è situato a 980 m. s.l.m. in posizione di cerniera fra le zone turistiche della “Sellata”, della “Maddalena” e di ‘Pierfaone’. Il complesso si trova in posizione dominante rispetto all’edilizia minore del borgo agricolo. A pochi metri dall’edificio una fonte d’acqua silvestre citata dall’abate Faggella nelle sue memorie. Tra la fine del decimo secolo e l’inizio dell’undicesimo l’edificio risulta abitato e nell’età sveva subisce numerosi saccheggi e distruzioni “Palazzo” da parte di una congregazione di frati trinitari provenienti da Venosa e la costruzione della piccola chiesa adiacente all’edificio. In età borbonica il “Palazzo ,” torna ad assolvere la funzione per la quale era stato progettato; con la cacciata dei frati da parte di un barone lombardo insediatosi nel “Castrum Gloriosum” (altro edificio fortificato situato sulle pendici scoscese di una collina a circa un chilometro a valle del Palazzo, oggi ridotto a pochi ruderi), esso torna ad essere palazzo baronale. Da ricordare nella prima metà dell’ottocento una lite fra i proprietari dell’edificio ed i baroni di Satriano che causò la parziale distruzione della parte sud del Palazzo. Da allora l’edificio conosce una serie di interventi e di ulteriori espansioni: fino al 1910 circa. Nel primo novecento le parti sud ed est dell’edificio vengono adibiti all’alloggio della servitù, a piano terra parte a stalle e parte trasformate in carcere. Dopo la seconda guerra mondiale, con l’intervento della diocesi di Acerenza, al borgo agricolo viene assegnato un parroco che consente di riaprire al culto la chiesa. Dopo il sisma del 1980 il fabbricato viene completamente abbandonato. Il complesso è articolato in tre piani a valle (prospetto sud) e due a monte prospetto principale, molte parti dei solai lignei sono crollati. Al primo piano sono visibili le celle dei frati, collegate al cortile e al grande refettorio. La chiesa annessa al complesso conserva un affresco della “Vergine Ascendente” di Giacomo da Senise. Di particolare interesse architettonico è la scala interna che collega i vari piani, caratterizzata da una struttura a rampe poggianti su archi a tutto sesto. Tutti i balconi esterni sono caratterizzati da soglie in pietra lavorata, la loggia principale conserva quattro elementi in ferro battuto finemente lavorati. Gli interni del piano terra, meglio conservati hanno la struttura caratterizzata da volte a botte e alcuni da volte a crociera. Il complesso è in gravi condizioni statiche e se ne auspica un recupero strutturale che scongiuri la perdita di una importante testimonianza storica ed architettonica.

Bibliografia:

Racioppi: ”Storia dei popoli della Basilicata”

AA.VV. : “Abriola: storia e tradizioni”

AA.VV.: “Monasteri Trinitari Lucani”

Abate M. Fagella: “Memorie”

Berterame: “Storie di Abriola” vol.1

Passarelli-Salinari:”Abriola nella storia e nella vita della Basilicata”

APT Basilicata

COMUNE DI ANZI

Il paese ha origini antiche, come è dimostrato dalla scoperta di reperti archeologici nelle zone limitrofe, in particolare una lapide triangolare, la cui scritta ha dimostrato che il centro originariamente si chiamava ANXIA, e che era una potente e ricchissima cittadina.

Fu roccaforte prima dei Longobardi e poi dei Normanni. In seguito passò al controllo di vari signori feudali.

Molto belle sono la chiesa di Santa Lucia, caratterizzata da un bel portale, decorato da antiche colonne e al cui interno è conservata un’acquasantiera di epoca medioevale e la cappella di Santa Maria, di cui si può ammirare il portale in stile tardo-gotico e dove all’interno sono conservati alcuni affreschi della fine del XVI sec.

Di grande interesse artistico è il palazzo baronale Zampaglione.

Nel salone della Canonica è stato realizzato uno dei più bei presepi poliscenici d’Europa.

È un’opera d’arte curata nei minimi dettagli e degna dei migliori maestri artigiani del settore.

COMUNE DI ARMENTO

Le origini del paese risalgono al periodo della colonizzazione greca.

A testimonianza della presenza greca in questo territorio sono i ritrovamenti di alcuni vasi di ceramica del VII-IV sec. a.C., e altri oggetti in bronzo, in rame, in oro e argento, scoperti in località Serra Lustrante. Reperti che oggi sono conservati nei più importanti musei d’Europa.

Di grande interesse artistico sono la chiesa di S. Luca Abate e la chiesa Madre, che conserva un polittico del XVI sec. e un quadro della Madonna del 1600.

Caratteristica è la cappella di San Vitale, in cui sono conservati affreschi raffiguranti episodi della vita del Santo del 1630, ed un quadro del Crocifisso con San Nicola e San Michele Arcangelo.

Molto belle da visitare sono la cappella di Sant’Antonio che conserva affreschi raffiguranti la Madonna Assunta in Cielo, e la Cappella di San Luca che conserva la statua lignea di San Vitale del XVIII sec..

Il piccolo paese è centro di richiamo religioso in quanto sede del Palazzo Vescovile, dimora estiva del Vescovo di Tricarico.

 

SANTUARIO DI ERACLE

Risorsa attualmente non visitabile in quanto soggetta ad interventi da parte della Soprintendenza di Basilicata.

A Serra Lustrante di Armento, località della media Val d’Agri, si sviluppa a partire dalla seconda metà del IV sec. a.C. un’importante area sacra con un Santuario dedicato ad Eracle, il cui rilievo ben presto assurge a livello cantonale.

Fin dagli inizi dell’Ottocento, in tutto il bacino interno dell’Agri e del Sinni, erano numerosi gli scavi effettuati per conto del Regio Museo di Napoli e condotti da funzionari o personalità locali spesso in rapporto con grandi collezionisti o musei europei dell’epoca.

Tra i rinvenimenti più importanti nel sito di Armento, sono famosi quelli del 1814, come la celebre corona aurea di Kritonios e la statua bronzea del Satiro inginocchiato, ora conservate nel Museo di Monaco di Baviera.

Altri importanti materiali, tra cui una corazza anatomica e diversi vasi bronzei, furono rinvenuti nel 1844.

COMUNE DI BRIENZA

L’origine del paese risale ai Longobardi, che scelsero questo luogo per l’edificazione della roccaforte per il controllo della vallata sottostante.

La roccaforte, circondata da una cinta muraria ancora oggi visibile, fu governata da diverse famiglie feudali fino ai Caracciolo, che la tennero sino agli inizi del nostro secolo.

E’ tra i pochi paesi della Basilicata che ha conservato la sua struttura architettonica di borgo medioevale.

Notevole è il castello, attualmente in restauro. Un’antica tradizione attribuisce al castello 365 stanze, una per ogni giorno dell’anno.

Nelle sue vicinanze sorge la chiesa Madre dedicata all’Assunta, risalente alla fine dell’XI sec.

Degne di nota sono le chiese di San Zaccaria e di San Michele Arcangelo (detta “dei greci”) esistente già nel XII sec., e di Santa Maria degli Angeli, situata a poca distanza dall’abitato.

Per le vie del paese si possono ammirare palazzi nobiliari con portali ed androni finemente lavorati, mentre in piazza Municipio è situato il monumento in bronzo che ricorda la figura di Mario Pagano, giurista e patriota originario di Brienza.

 

BORGO MEDIEVALE

Il borgo medioevale di Brienza riveste un notevole interesse storico ed ambientale, per le sue caratteristiche storiche, culturali, morfologiche e tipologiche. La parte più alta è interamente occupata dal castello Caracciolo, mentre il borgo vero e proprio è costituito da piccole case di due o tre piani, realizzate in pietrame con tecniche modeste.

Le strade sono costituite da piccole viuzze tipiche dell’epoca.

Nel borgo sono presenti anche edifici religiosi come quello della Chiesa Madre. Il borgo si presenta oggi in stato di avanzato degrado per i danni subiti dai terremoti del 1857 e 1980; è quindi necessario un intervento che nel tempo debba essere finalizzato al recupero ambientale e monumentale dell’intero insediamento, dando naturalmente priorità alle esigenze di recupero statico e funzionale, sia delle unità immobiliari, sia degli edifici monumentali.

 CASTELLO

Sito attualmente impraticabile a causa dei lavori in corso.

Le prime testimonianze documentarie riguardanti il Castello Caracciolo risalgono ad epoca angioina, ma probabilmente la data di fondazione del maniero è precedente e si può porre, secondo alcuni storici, intorno al IV secolo. Interamente rifatto nel 1571, di esso rimane traccia nel mastio cilindrico, che emerge dalla massiccia mole, e nella semitorre circolare, situata al centro della cinta muraria per interrompere l’uniformità della cortina e assicurare una più efficace difesa. Ai Caracciolo si devono i successivi ampliamenti e la singolare forma, quasi triangolare, su tre piani. Una scalinata in pietra, a cielo aperto, conduce ad un terrazzo a terrapieno posto davanti all’ingresso principale. I Caracciolo, con alterne vicende, rimasero proprietari del feudo e del castello fino al 1857, anno in cui l’ultima esponente della famiglia, Maria Giulia, lo lasciò in eredità al nipote Luigi Barracco.

CHIESA DI S. MARIA DEGLI ANGELI

La Chiesa è visitabile previa richiesta al Comune.

L’antica Cappella della Madonna degli Angeli sorge a circa un chilometro e mezzo dal paese, nella contrada omonima, sul ciglio della strada per Potenza. È costruita in parte al di sotto del piano stradale, con accesso principale sulla via comunale che viene da Brienza. Uno stemma in pietra dimostra che la Cappella venne innalzata dalla cittadina di Brienza e dedicata alla Vergine nel 1609.

Essa presenta un impianto asimmetrico ed è divisa in due parti: la parte pubblica presenta una forma rettangolare regolare mentre l’abside presenta una pianta irregolare e si trova su un piano più elevato. Nei pressi della Cappella c’è il vecchio ospedale, uno stabile di due piani adibito a lazzaretto durante la peste del 1656.

PALAZZO CARONE

L’edificio, ubicato in una posizione di sicuro rilievo nell’ambito del centro storico, è un’interessante espressione di arte eclettica (sec. XIX).

Dotato di impianto pressoché regolare su due livelli con andamento discontinuo, presenta il paramento in muratura di pietrame con una caratterizzazione di sobrietà cromatica che manifestamente rievoca l’edilizia gentilizia dell’epoca.

Si leggono i segni del tempo che hanno inciso un’impronta profonda nella fisionomia, con lesioni e cedimenti che prospettano un grave quadro fessurativo ma, ciò nonostante, quella stessa fisionomia appare complessivamente salva e di sé offre un’immagine di gradevole compattezza ed armonia.

Non accusa modifiche icnografiche né di struttura che, malgrado l’edacità del tempo, si è conservata sostanzialmente integra nei caratteri fisionomici or ora espressi, ad eccezione della spazialità sicuramente riformulata nel tempo per ineludibili adeguamenti funzionali.

Un’assoluta e rigorosa essenzialità definisce di certo l’edificio che, sul fronte, si adorna di un raffinato portale archivoltato, compaginato in modo singolare dal momento che sull’estradosso si fregia di un’insolita trabeazione dorica canonicamente dotata di epistilio liscio, fregio ritmato e regulae che all’insieme conferiscono un’intensa nota di armonioso e mirato eclettismo; uno stile che, in ordine con quanto appena detto, sembra indulgere ad accenti di preziosità, seppure contenuti, o semplicemente a virtuosismi non casuali se si considera l’originale “stesura” degli echini dei capitelli schiacciati delle paraste, modanati ad ovoli e dardi in ossequio al raffinato dettato dell’ordine ionico. Pertanto l’evidente interesse, la cura dei particolari più svariati e la sintassi decorativa che segnatamente privilegia la “citazione” erudita ovvero, in un’espressione sintetica ed insieme emblematica, la fusione e a rivisitazione degli stili storici – dall’arte classica a quella rinascimentale – parlano ovviamente quel linguaggio eclettico di cui si diceva che, nell’episodio lucano, si attesta secondo gradevoli modalità per contenutezza e sobrietà, così scongiurando quell’eccessivo individualismo tante volte dichiarato che sovente ha qualificato l’Eclettismo quale indirizzo artistico poco determinato ed originale.

A tale riguardo contribuisce a far testo la pregevole e coerente definizione del portone, peraltro lunettato ed ornato da un’acconcia inferriata per tutta l’ampiezza dell’arco, in relazione alla sua ripartizione in riquadri o formelle bellamente intagliate in forma di piramide ribassata o a punta di diamante secondo un noto schema plastico rinascimentale.

Perciò interessante il prospetto principale per l’impostazione composita ma non ostentata del portale d’ingresso, dettata da un’indubbia e maggiore rappresentatività che diviene più sfumata nelle altre luci dello stesso livello e del piano superiore e nelle partiture dei restanti prospetti con un esito di lieve e gradevole contrasto; la rigorosa simmetria delle parti, per effetto di un disegno strutturale e decorativo manifestamente nitido ed essenziale, non lascia dubbi sulla bontà del metodo adottato.

La concezione unica di sobrietà ed eleganza esprime, in sostanza, la ricerca di un “modus” che ben si realizza quasi dappertutto come nel rilievo e nella linea elegante dei balconi in ferro battuto e lavorato, nell’assialità ed omogeneità delle luci per dettato di simmetria, nel paramento in pietrame con inserti in laterizi, nelle bugne angolari e nel fregio a dentelli che avvolge l’intero coronamento.

Il medesimo riscontro di raffinata eleganza si rileva coerentemente negli interni che rivelano un vestibolo con volte, in sequenza, a botte e ribassata, una scenografica rampa con ringhiera identica nel disegno ai balconi esterni e le profonde volte a botte dei locali adibiti a deposito.

In definitiva in questo quadro compositivo, dove non mancano i contrasti, si ravvisa agevolmente l’idea portante di una sobria geometria mirata ad originare un valido prodotto architettonico per l’adozione di un metodo che non lascia alcuna “chance” al caso.

Bibliografia

F. CIRELLI, Il regno delle due Sicilie descritto e illustrato, Napoli 1853.

L. VENTRE, La Lucania dalle origini all’epoca odierna vista e illustrata attraverso la storia della città di Marsiconuovo, Salerno 1965.

tratto da “BASILICATA REGIONE Notizie, 2000

 

COMUNE DI CALVELLO

Il paese, le cui origini risalgono al XII sec, nasce come roccaforte longobarda e per questo, come quasi tutti i paesi della Basilicata, Calvello fu feudo nobiliare per tantissimo tempo.

Durante i moti del 1820, nel paese ebbe luogo la riunione della carboneria di Basilicata, Puglia e Campania, guidata da Carlo Mazziotta.

Nel centro storico ha sede il castello, antica dimora dei diversi feudatari che si succedettero nel corso degli anni.

Di notevole interesse artistico è la chiesa di Santa Maria de Plano del XII sec., che è tra le più belle della regione. Suggestivo è il ponte di Sant’Antuono del XII sec. con un particolare tipo di arco.

Di grande pregio è la chiesa di Santa Maria degli Angeli, con tracce di affreschi del 1400 ed alcuni affreschi del 600.

Nel territorio di Calvello, alle pendici del monte Volturino, si trovano i pascoli migliori della Basilicata dove si allevano caprini, ovini, equini, e bovini di razza podolica, dai quali si ottiene il tipico caciocavallo.

CHIESA DI SANTA MARIA DE PLANO

Entrando nel paese di Calvello da sud si nota l’interessante ponte di pietra di Sant’Antuono, del XII secolo. Il ponte congiunge il Rione Sant’Antuono con il Rione il Piano, dove si trova il complesso conventuale di S. Maria de Plano. Il Convento è articolato intorno al chiostro quadrangolare, con pozzo centrale, affrescato lungo le volte nelle sue quattro ali. La Chiesa fu fondata dai benedettini e passata poi ai francescani.

Della chiesa si possono ammirare i due portali con capitelli di stile corinzio finemente lavorati e ornati con motivi vegetali a casco di foglie d’acanto, realizzati nella bottega di Melchiorre da Montalbano (arch. scult. doc. 1273-1279). All’interno, la statua lignea della Madonna del 1100, l’altare maggiore in stile barocco e un coro ligneo del 1800.

CHIESA DI S. MARIA DEGLI ANGELI

Di grande pregio artistico è la chiesa di Santa Maria degli Angeli, con tracce di affreschi del 1400 ed anche alcuni affreschi del 1600.Nell’interno sono da ammirare cinque nicchie, affrescate nel 1616 da Girolamo Todisco di Abriola. A sinistra dell’ingresso, Madonna del Latte (che soccorre le anime purganti) coi SS. Filippo, Giacomo Minore, Pietro, Paolo e Visita di Maria a S. Elisabetta.A destra sono Tobia, l’Angelo, Natività, S. Michele Arcangelo (che guida le anime del Purgatorio lottando contro Satana) con S. Giacomo Maggiore e S. Leonardo, la Madonna dell’Ulivo o della Pace, un Papa, un Vescovo, S. Marco e S. Antonio da Padova. Sulla parete centrale si può ammirare una tela del Seicento, che raffigura la Vergine col Bambino e un Arcangelo in atto di liberare alcuni dannati dalle fiamme del Purgatorio. A destra della tela è un Crocifisso ligneo del Settecento.

PONTE S.ANTUONO

Il ponte, costituito da un arco ribassato, ha struttura e parapetto in conci di pietra; recenti restauri hanno eliminato le notevoli superfetazioni apportate negli ultimi 50 anni, restituendo al manufatto l’armoniosità delle forme e dei materiali originari. Considerato di epoca medievale, il ponte è stato probabilmente edificato su preesistenti strutture romane, in quanto consentiva all’antico tracciato che intercetta va la via Herculia di oltrepassare il torrente La Terra e proseguire in direzione della Civita di Marsicovetere. Successivamente esso ha costituito l’accesso al dolce declivio della collina Timpa del Castagno dove la popolazione insediatasi intorno al complesso monastico di S. Maria del Piano coltivava gli orti; in ragione del notevole incremento della popolazione qui si formò ben presto un piccolo agglomerato di case attorno alla cappella di S. Antonio, primo nucleo di quello che diventerà il rione S. Antonio. La chiesa custodisce una singolare scultura lignea raffigurante il Santo protettore del fuoco e degli animali, al quale la popolazione di Calvello è particolarmente devota. La festa di S. Antonio si celebra il 17 gennaio ed in passato era particolarmente sentita. i devoti raccoglievano cataste di legna che deponevano dinanzi la chiesa; la mattina del 17 gennaio il sacerdote benediceva i fuochi divampati dalla legna raccolta e i tizzoni, che secondo la credenza popolare avevano la proprietà di proteggere il focolare domestico dal/e sciagure e dagli incendi, venivano contesi tra gli abitanti, al tambureggiare della banda, tra balli e risa. Altra singolare consuetudine, ormai scomparsa, legata al culto di S. Antonio e che si protraeva per tutto l’anno, era la crescita a pascolo brado per le vie del paese del “maiale (puorc) di S. Antonio” il suino, fin da piccolo, veniva lasciato circolare libero per le vie e i vicoli e ognuno si premurava di nutrirlo con ghiande, granturco e beveroni; il suo passaggio, per quanto accompagnato da particolari profluvi, veniva accolto benevolmente quale segno della benedizione del Santo e, al tramonto, l’ultimo ad incontrarlo era tenuto ad ospitarlo nella propria stalla. Il 16 di gennaio, vigilia della festa, il maiale veniva pubblicamente sacrificato con riti particolari, quindi si preparavano insaccati, ventresca, prosciutto, costate e fettine che, cucinati sulla brace del fuoco benedetto o crudi, venivano acquistati dagli abitanti che così potevano portarsi a casa la benedizione de ‘lu puorc’ di S. Antuono”.

tratto da “Sellata-Volturino” A.P.T. Basilicata

CASTELLO

Appollaiato sulla cima d’un promontorio, a fronte del colle “Timpo del Castagno”, si erge un grosso caseggiato, impropriamente detto “Castello”.

A Nord sprofonda su un rigagnolo a corso stagionale, con uno strapiombo di circa 200 m.; a mezzogiorno degradano le case accavallate l’una sull’altra con vicoli stretti. Poco discosta vi è la Chiesa di San Nicola, con nell’interno il coretto per i signori feudatari. La grossa e sgraziata costruzione, con ogni probabilità, fu eretta sui resti di un’antica roccaforte che i Longobardi nel 700 stabilirono lassù, a guardia della vallata, che dalle falde del Volturino si stende lungo il fiume “La Terra” e del “Piesco”, confluenti nel Basento, e separata nettamente dalle vallate dell’Agri e del Vallo del Diano.

I Longobardi, ottimi strateghi, intesero, e bene a proposito, ergervi una ben munita postazione militare, che controllasse il flusso per i tratturi che, provenienti dall’altro versante, dalla Campania, portano, superando il valico dei quattro confini, verso le Puglie, attraversando la valle del Basento per la strada delle cinque Chiese.

Non vi è notizia alcuna, né segni, né reperti, né tradizione di insediamenti abitativi intorno alla roccaforte.

Essa era isolata in un mare di verde, e vegliata unicamente dal mormorio delle acque del fiume e dal passaggio dei viandanti.

La roccaforte esaurì la sua funzione e cadde in rovina, quando i costruttori persero il potere.

L’altura con i ruderi della roccaforte, come ancor oggi quella di fronte, era ricoperta da folti castagneti; e la foresta degradante dal Volturino, lambiva il cenobio. I monaci, con paziente costante lavoro, disboscarono la zona, permettendo ai primi abitanti, che si andavano raccogliendo, la coltivazione di cereali, ortaggi e la piantagione della vite.

Quando, tra la fine del 1200 e gli inizi del 1300 i due Cenobi iniziavano l’inesorabile declino che li portò all’estinzione, sui resti della roccaforte fu edificata, dal Conte Bernardo, divenuto nel frattempo feudatario di un vasto territorio che dal Volturino si spingeva fino alle radici del Caperrino, una grossa casa di campagna; una brutta costruzione quadrangolare di nessuno interesse architettonico. Non vi sono segni o resti indicanti che originariamente vi fossero bastioni, merlature, feritoie, ponte levatoio. Non vi è alcuna traccia di caratteristiche che possa far pensare ad un “castello”.

Dopo il Conte Bernardo, nell’età sveva, Calvello fu feudo di Gentile De Patruno, il quale ribellatosi agli Angioini, perdette il feudo che fu assegnato da Carlo I D’Angiò ad Enrico Bourguignon. Successivamente passò a Roberto de Carny, e poi a Oddone de Oddone de Fontaine. Nel secolo XVI Calvello era feudo dei Carafa, per passare poi ai Cutini, e infine ai Ruffo di Calabria.

Dei Carafa si ricorda l’obbligo contratto, con atto notarile nel 1786, per sé ed eredi, dalla duchessa Dorotea Laguy Carafa, di fornire l’olio occorrente ad alimentare la lampada del SS.mo Sacramento nella Chiesa di San Nicola “prope Castellum”, ove la nobildonna si recava per le sue devozioni, durante la permanenza a Calvello. Da notare che tutti i feudatari, succedutisi nei secoli, non hanno avuto mai alcuna influenza sul paese, che si riconobbe invece, sempre ed unicamente, nei due Cenobi, fino alla loro estinzione, e nei francescani, succeduti ai benedettini alla fine del 1500.

La vita e il progresso sociale, nelle molteplici componenti artistico-culturale e di sviluppo, nella fierezza indipendentistica e libertaria, erano regolate dai Monaci; mentre i “signori feudatari”, non si vedevano mai, se non per esigere, a mezzo di incaricati, le rendite dei terreni e dei balzelli, avallati dai dominatori di Napoli.

La famiglia Ruffo di Castel Cicale, ultima proprietaria, circa trent’anni fa vendette i terreni e il fabbricato; quest’ultimo lottizzandolo fra 12 o13 famiglie. Gli ultimi personaggi di detta famiglia, venuti a soggiornare a Calvello nel periodo estivo, sono stati: il conte de la Tour, consorte della Principessa di Castel Cicale e duchessa di Calvello, scomparsa qualche anno fa, ambasciatore a l’Aia; e l’ultimo rampollo, il conte Paolo de la Tour, deceduto 4 anni fa. Era ben conosciuto dallo scrivente, al quale si premurava di corrispondere l’importo di lire 5 annue per l’olio della lampada della Chiesa di San Nicola. Avviato alla carriera diplomatica, come il genitore, esercitò le funzioni d’incaricato d’affari presso la Santa Sede nel periodo bellico; e nel 1946, per solidarietà con Umberto II, esiliato per referendum, rinunciò agli incarichi diplomatici e si ritirò a vita privata nel feudo di Castel Cicale presso Nola.

La secolare storia dei feudatari di Calvello finiva così squallidamente, nella dimenticanza di tutti.

Nel 1958 Paola, dei Principi di Ruffo di Calabria, ora Paola di Liegi del Belgio, col fratello Antonello venne a Calvello, e visitò, accompagnata dallo scrivente, i luoghi e il castello ove il genitore, Principe Ruffo di Calabria, valoroso aviatore nella guerra 1915-18 e compagno inseparabile nei memorabili raids dell’eroico pilota Francesco Baracca, era solito soggiornare per lunghi periodi, ospite dei cugini.

Il sisma del 23/11/1980 ha reso inagibile il grosso fabbricato che ora si vuole restaurare.

Bibliografia:

Sito ufficiale del Comune di Calvello

Soprintendenza dei Beni Architettonici di Basilicata

COMUNE DI CARBONE

Il piccolo abitato sorse nel IX sec. d.C. col nome di “Montedoro”, dovuto all’abbondanza dei raccolti.

Prese il nome attuale dal cognome dell’abate San Luca Carbone di Armento, che terminò la costruzione del monastero dei Santi Elia e Anastasio.

Degna di nota è la chiesa Madre, del XVI sec., dove sono conservate alcune tele di scuola napoletana del 1600, un reliquario d’argento del XVI sec. ed alcuni oggetti recuperati dal monastero distrutto.

Nella cappella dell’ex convento di San Francesco si possono ammirare affreschi del 1700, ed una tavola raffigurante la Madonna con i Santi del 1500.

Il centro storico è caratterizzato da alcuni antichi palazzi come Palazzo Cascini, Palazzo De Nigris e Palazzo Castronuovo.

Il territorio del paese, circondato da boschi di castagno, di faggio e di abete bianco, è molto ricco di pascoli ed è possibile, nel periodo maggio-novembre, la raccolta di numerose varietà di funghi.

 

 

PALAZZO DE NIGRIS

PALAZZO CASCINI

        

 

 COMUNE DI CASTELSARACENO

Il paese, di struttura Medioevale, è circondato da folti boschi e da una piccola montagna detta “Castel Veglia”.

Le sue origini sono alquanto incerte, anche se si presume che sia sorto all’inizio dell’anno 1000 sotto la dominazione saracena.

Un’ipotesi diversa sostiene che gli abitanti di Planula, per difendersi dagli assalti dei Saraceni, costruirono una fortezza sul luogo in cui oggi sorge Castelsaraceno.

Successivamente l’abitato appartenne a diversi baroni e feudatari del posto.

Molto belle all’interno del paese sono la chiesa di Santa Maria degli Angeli (XVI sec.) e la chiesa di Santo Spirito (costruita tra il XVI e XVII sec.).

Di notevole interesse artistico è il “Palazzo Baronale” (XV sec.).

Una manifestazione caratteristica del paese è l’antico rito “dell’antenna” che si celebra nel mese di giugno; un tronco di faggio ben levigato ed alto più di 20 metri, viene unito con la cima di un abete e poi innalzato al centro della piazza.

 COMUNE DI GALLICCHIO

Il centro è situato su di una collina nella valle del fiume Agri.

Originariamente l’abitato si trovava su un territorio denominato “Gallicchio Vetere”. In seguito alla sua distruzione da parte dei saraceni, i pochi abitanti scampati al disastro si rifugiarono sulle rocce del “Fosso dei Monaci” dando origine al nuovo abitato di Gallicchio.

Il suo nome sembra aver avuto origine da “Galli ictus” che in latino significa Gallo che lancia; infatti lo stemma comunale riproduce l’immagine di un gallo che impugna una freccia nell’atto di lanciarla.

Il paese passò in mano a diversi feudatari sino ai baroni Attolini di cui oggi si può ammirare l’imponente palazzo baronale.

Molto bella è la chiesa madre dedicata alla Madonna del Carmine, al cui interno sono conservati un dipinto raffigurante la Madonna del Carmine del 1613 ed un affresco raffigurante Sant’Anna e la Vergine Santissima.

Il territorio circostante è ricco di vigneti e uliveti dai quali si ricava ottimo vino e olio di buona qualità.

 CHIESA DELLA MADONNA DEL CARMINE

 La Cappella del Carmine si trova  alla confluenza dei due rami del fosso dei Monaci che abbracciano l’abitato di Gallicchio, su uno sperone di compatta roccia . E’ la prima costruzione del paese dalla parte sud.

Una stradicciola, intagliata nella roccia scoscesa, parallela al fosso, piena di ciottoli porta alla Cappella e prosegue poi, zigzagando per diminuire la pendenza, verso la confluenza dei due fossi.

Per chi proviene dalla valle dell’Agri, la cappella appare all’ultimo momento assieme alla parte antica del paese.  La tradizione vuole che la cappella ha avuto sicuramente origine con i primi insediamenti umani su questo sperone di roccia a cavallo di due fossi profondi .La posizione è sicuramente nascosta, ma insospettatamente soleggiata e riparata dai freddi venti tanto che di solito, quando gli inverni non sono particolarmente rigidi, difficilmente vi resiste la neve. Non si conosce la data certa in cui è stata eretta questa cappella. Le iscrizioni reperibili in loco ed in particolare sul frontone del portale della cappella recano la data del  1610 ma quest’epoca è da riferirsi a quella di un restauro od abbellimento di un preesistente luogo di culto realizzato pare in occasione di un evento straordinario che indusse il “principe Coppola” a ringraziare concretamente e pubblicamente la Vergine che vi si venerava. La Cappella, a pianta rettangolare, misura circa metri 7,5 di larghezza per circa 10 di lunghezza, è disposta in direzione est ovest con ingresso principale ad ovest verso la strada che porta al paese.

Dei signori che furono feudatari di Gallicchio, rimangono ancora dimore e palazzi nobiliari, come il PALAZZO BARONALE ATTOLINI, residenza dei baroni Attolini.

COMUNE DI GRUMENTO NOVA

Grumento è uno dei più importanti centri storici della Lucania, noto sin dalla II Guerra Punica.Dopo la distruzione del paese di Grumentum da parte dei Saraceni nel 973, gli abitanti si stanziarono nelle zone circostanti la valle del fiume Agri dove fondarono il borgo di Grumento Nova. Dopo la dominazione normanna passò agli Svevi. Nel 1870 venne acquistata dalla famiglia Giliberti che vi edificò il Castello, di cui oggi non restano che pochi ruderi. Nella storia romana, Grumentum è ricordata nella guerra contro Annibale e nella guerra “Sociale” nel 90 a.C. A poca distanza dall’abitato è possibile ammirare il Parco archeologico di Grumentum, con resti di diversi edifici ed un museo. Interessante anche la chiesa di Sant’Antonio, dell’ottocento con facciata in stile neoclassico e campanile a vela, e la Chiesa del Rosario, del 1860 con cupola sostenuta da quattro colonne, nel cui interno sono conservati affascinanti mosaici. Non molto lontano dalle rovine dell’antica città si trova il lago del Pertusillo, un bacino artificiale circondato da una lussureggiante vegetazione, ricco di anguille e trote.

PALAZZO GILIBERTI

SANTUARIO MADONNA DEL GRUMENTINO

Il Santuario sorge a circa tre chilometri dall’area archeologica dell’antica città romana di Grumentum. Nel 1739 Niccolò Ramaglia, storico locale, riferisce di una grave epidemia scoppiata nel paese, causa di molte morti. Ma ad una santa monaca del monastero carmelitano di S. Giovanni Battista esistente nel paese, la Vergine avrebbe rivelato che, se nell’antica cappella di Grumentino fosse stato ripristinato l’antico culto caduto in oblio, il popolo di Saponara sarebbe stato liberato da quel flagello. Si dette così inizio alla ricostruzione della cappella, e l’epidemia ebbe fine. Oggetto del culto è una statua in pietra dipinta da un ignoto autore meridionale e si festeggia la prima domenica in Albis con un pellegrinaggio.

(Notizie storiche tratte dal libro “Grumentum, Saponaria, Grumento Nova-Storia di una Comunità dell’Alta Val d’Agri” di Vincenzo Falasca, Potenza 1997, Edizioni Hermes)

CHIESETTA DI SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA

La chiesa di S. Caterina recentemente restaurata è stata adibita a Museo Ecclesiale con un’ esposizione di arte sacra. Sulla facciata esterna si possono ammirare la testa in pietra di S. Biagio e una meridiana.

  CASTELLO SAN SEVERINO

Il castello venne edificato dai Normanni nell’undicesimo secolo, e restaurato agli inzi del 1700 dal principe di Bisignano e Conte di Saponara Carlo Maria Sanseverino che lo ampliò facendogli raggiungere la dimensione di circa 300 ambienti. Quasi completamente distrutto dal violento terremoto del dicembre 1857, oggi è visibile un salone dove sono dipinti in trentasei nicchie angeli e putti reggistemma del diciottesimo secolo dei pittori Perrone e Altobella. Quest’ala del castello è stata di recente rilevata dal comune di Grumento Nova, che ha iniziato i lavori di restauro che ne consentiranno in seguito la fruibilità.

COMUNE DI LAGONEGRO

L’origine del nome del paese si rifà al “Lacus Niger”, un lago dalle acque nere di cui oggi non si hanno più tracce.

Abitata originariamente da una comunità basiliana, fu fortificata dai Longobardi di Salerno e dopo la conquista normanna fu assegnata alla contea di Lauria.

Successivamente fu proprietà di diverse famiglie feudali fino al 1551, quando riuscì a liberarsi dalla feudalità per iniziativa di Paolo Marsicano.

L’abitato di Lagonegro è diviso in due parti: la parte vecchia, arroccata intorno ai ruderi del castello feudale e la parte nuova caratterizzata da una grande piazza alberata detta il “Piano”.

Non mancano interessanti emergenze architettoniche.

A circa due chilometri dal paese si trova il parco zoologico “Giada”, creato da un appassionato di fauna esotica e donato successivamente al comune di Lagonegro.

Da visitare è il lago Sirino, ricco di trote, anguille, tinche, persici e alborelle.

RUDERI DEL CASTELLO

«Del castello di Lagonegro oggi non rimane [quasi] alcuna traccia. Dovette essere costruito dai Normanni, su una rupe denominata Castello, di forma quasi circolare, e quindi facente parte di un nucleo abitato più antico, che poi venne abbandonato durante il popolamento del nuovo borgo. Sui margini di questa rupe, infatti, furono costruite nel medioevo delle grosse mura di cinta, nel cui circuito vi erano altre torri semicircolari di cui due sono tuttora in piedi, mentre l’altra è completamente distrutta. Il castello sorgeva sulla vetta della rupe, ma dopo che nel 1552 i Lagonegresi pagarono con un riscatto la loro libertà, furono essi stessi a disperdere le tracce materiali del feroce dominio feudale e ad evitare che un nuovo barone si insediasse nella fortezza. I cittadini pensarono di abbattere fin dalle fondamenta il superbo e temuto palazzo del Barone, e non fu mai permesso a nessuno di fabbricare su quel suolo. L’area del palazzo rimase nei secoli come piazzetta pubblica e luogo di riunione e di passeggio, finché nel 1858 fu adattata a necropoli ed i sotterranei del palazzo furono utilizzati come sepoltura ed ossario comune».

 

Bibliografia:

http://www.vacanzeinbasilicata.it/Basilicata/Potenza/Comuni/Lagonegro/Da-Visitare/Lagonegro-Castello.asp

 COMUNE DI LAURENZANA

Le origini del paese risalgono probabilmente al XII sec., quando i Normanni edificarono una fortezza in virtù della posizione strategica del paese.

Dopo un periodo di dominio aragonese il paese passò attraverso diverse famiglie feudali.

Attraversando il paese è possibile vedere la chiesa Madre dell’Assunta, di cui si può ammirare il portale in pietra del 1780.

Vicino alla chiesa è situato il Belvedere, dal quale si possono ammirare le valli e le montagne circostanti. Interessante è la chiesa della Madonna del Carmine, nel cui interno è conservata una tela del 1611 di Giovanni Battista Serra da Tricarico.

Degno di menzione è poi il castello, situato in posizione dominante l’abitato, di cui restano soltanto i ruderi.

Nelle vicinanze dell’abitato è possibile fare escursioni nell’Abetina di Laurenzana .

CASTELLO

Il castello di Laurenzana si erge isolato sulla sommità di una rupe al centro del paese. Massima espressione del potere temporale si contrappone alla Chiesa Madre che le sorge a fianco . Nasce con i Normanni (1150), che costruirono la fortezza su un precedente castello longobardo, poi eremo di monaci basiliani e infine avamposto arabo. Il primo feudatario di Laurenzana fu il normanno Guglielmo, figlio di Matteo da Tito. Nella prima metà del XIII secolo, con l’arrivo degli Svevi, il castello viene menzionato in un catalogus normanno come struttura fortificata con funzioni prevalentemente militari. La fine del regno svevo coincide con l’avvento degli Angioini. Durante il loro regno, si ebbe il passaggio del “Castrum Laurenciani” prima ad Annibaldo de Trasimundo, poi a Guglielmo de Tournespèe che videro profonde trasformazioni all’interno del castello. Nel 1442 il feudo di Laurenzana passò nelle mani degli Aragonesi. Dal 1454 inizia l’avvicendarsi nel possesso del feudo di Laurenzana in mani di sempre diverse famiglie baronali . I primi che ottennero il privilegium furono la famiglia degli Orsini con Maria Donata. Agli Orsini si legò la famiglia Del Balzo, e nel 1483 divenne signore di Laurenzana Raimondo Orsini Del Balzo. Questi iniziò il rifacimento del castello trasformandolo da rocca in palazzo baronale. Edificò sulle fondamenta del castello normanno l’ala nord che si affaccia sul sagrato della Chiesa Madre; nella corte interna al secondo piano vengono realizzate un ordine di logge simili a quelle del castello di Venosa. La parentesi degli Orsini Del Balzo a Laurenzana si chiuse con lo stesso Raimondo. La nuova famiglia che si insediò fu quella dei conti Poderico nelle persone di Paolo e Antonio che governarono dal 1496 al 1550; seguirono le famiglie dei Loffredo, dei conti Filangieri e dei De Ruggiero. Nel 1606 il feudo passò ai Gaetani D’Aragona. In questo periodo il castello subì ulteriori trasformazioni: vennero meno le ragioni difensive, e il maniero si trasformò in uno splendido palazzo. Nel ’700 il castello subisce l’ultima profonda ristrutturazione che lo porta ad assumere le forme attuali . L’ultima famiglia a tenere il feudo dopo i Gaetani D’Aragona è stata quella dei duchi Quarti di Belgioioso che hanno abitato il vecchio maniero sino ai primi decenni del novecento. Oltre l’aspetto storico – architettonico è da ricordare che attorno al castello aleggiano molte leggende : come quella delle “365 stanze” tante quanti sono i giorni dell’anno; “la mezza signora”, che nelle ore più buie della notte si affaccia alle finestre per scrutare il paese addormentato; la fondazione del paese ad opera di un pastore di nome Lorenzo dal quale pare sia nato il nome di Laurenzana.

PALAZZO ASSELTA

Palazzo Asselta è la storica dimora del patriota Domenico Asselta, tra i capi della colonna insurrezionale che partita da Corleto Perticara e passando per Laurenzana, ha portato nel 1860 alla liberazione di Potenza, prima dell’arrivo di Garibaldi. Per la realizzazione degli ideali risorgimentali ha impegnato tutta la sua vita, nonché profuso tutte le sue sostanze. Eletto alla carica di deputato nel parlamento della nuova Italia, non esitò a lasciare spontaneamente il potere, avvicendandosi con un altro deputato lucano Pietro Lacava, e anche questo è un segno della sua diversità e modernità.

COMUNE DI LAURIA

Secondo alcuni studiosi Lauria è sorta nel 400 a.C., da una colonia di cretesi attirati dalle bellezze del paesaggio. In località “Piano dei Peri”, nelle vicinanze di Trecchina, fondarono una città col nome di Iriae; successivamente il nome fu cambiato in Uria, città aurea. Secondo altri studiosi, Lauria occuperebbe l’antico territorio della Lagaria, città della Siritide. L’attuale centro sorse a partire dal 1150 ad opera di una comunità Basiliana. Il centro abitato odierno si sviluppa in una parte Superiore ed una Inferiore, distanti tra loro circa un chilometro. Presenta interessanti emergenze architettoniche. Non molto lontano dal paese, in località Conserva, si trovano piste da sci con aree attrezzate. Sviluppato è l’artigianato della pietra, del ferro battuto e della lavorazione del vimine, soprattutto cesti e setacci.

CASTELLO DI RUGGIERO DI LAURIA

 

Sulla vetta di un monte roccioso che domina il vallone Caffaro, si ergono i resti delle torri, della base e dei muri del castello di Lauria la cui fama è legata alla figura di Ruggiero di Lauria, celebre ammiraglio d’Aragona. L’illustre Giustiziere di Federico Riccardo, il padre del “gran capitano”, tenuto in tanta considerazione da Federico II da esser nominato viceré delle terre di Bari e Gran Giustiziere della Basilicata, aveva certamente fissato la sua dimora nel castello di Lauria che, come sostiene il Muntaner, doveva essere “il più cospicuo” dei ventiquattro castelli sottoposti al suo comando, nelle cui segrete nobili personaggi invisi a Federico sarebbero stati custoditi dall’illustre Giustiziere. Le origini oltre la fama Secondo alcuni, la storia del Castello di Lauria è più antica del suo più famoso possessore: i documenti al riguardo non sono copiosi ma alcune tracce consentono di ipotizzare le vicende della sua origine. I documenti più antichi oggi conosciuti sono quelli che fanno risalire l’epoca di una ristrutturazione e fortificazione del castello ad opera di Gisulfo I, principe di Salerno di origine Longobarda, nella seconda metà del X secolo. Secondo altri, invece, la costruzione del maniero risale al XIII sec.: le strutture ancora esistenti non consentono una puntuale ricostruzione del complesso che doveva, però, avere dimensioni ampie. Tracce di un’antica grandezza A pianta ottagonale, con mura perimetrali di dimensioni notevoli, la costruzione si sviluppava forse su tre piani e possedeva torri laterali di cui resta ancora traccia. L’unico accesso era dal lato orientale: restano poche tracce di una scala molto ripida ed è ancora 796px-Castello Lauriavisibile l’entrata principale fondata su roccia viva. La murazione è di tipo tradizionale in pietra locale. Lo stato assolutamente precario di conservazione, l’ampia vegetazione che lo ricopre, non riescono a nascondere i segni di una antica grandezza, dimostrata innanzitutto dal modello della pianta che vagamente ricorda il più noto Castel del Monte federiciano. Il maniero,  eretto in posizione dominante e completamente imprendibile, era una rocca che sorgeva a guardia e a minaccia della valle per ricordare da secoli sia la forza di Ruggiero che il fascino del suo antico casato. La resistenza a Napoleone Il castello fu il centro della resistenza agli assalti del generale francese Massena, che espugnò e punì duramente la città di Lauria, insorta dopo l’occupazione francese nel 1806. Molti abitanti l’8 e il 9 agosto furono barbaramente trucidati dai soldati napoleonici: l’evento è passato alla storia come il Massacro di Lauria. La voce della vendetta La leggenda narra che in questo castello i feudatari ospitassero le più belle fanciulle della regione, per istruirle nell’arte dell’amore e dello spionaggio, inviandole quindi presso i signori che ne facessero richiesta. Si racconta che un giorno, una di queste belle fanciulle, cresciuta da uno dei signori del castello, si fosse innamorata di un inserviente. Il signore, preso dall’ira, uccise il servo pensando di rimanere solo ed ancora amato come un tempo. Ma una notte di tempesta, la fanciulla chiese al signore di seguirla nei sotterranei, dove avrebbero assaporato il frutto dell’amore. Nello scendere le scale, il signore vide aprirsi una porta: era il fantasma dell’ucciso che pretendeva l’amore più caro del signore, l’anima. Si racconta che il signore fosse precipitato da una finestra del castello, gettato dalla fanciulla e dal fantasma del servo, e da allora si sentono ancora degli spifferi che raccontano questa orribile storia. Noli me tangere Simbolo del comune di Lauria è il Basilisco con la scritta Noli me tangere (“Non mi toccare”), che ricopre tutta una serie di significati, tra i quali quello, originario, che in varie forme della coscienza collettiva rimane ancora vivo, è la temibilità ed intoccabilità dell’abitato, grazie alla presenza della fortezza. Fonti: – http://www.ecodibasilicata.it/html/ruggero_di_lauria.html – “Lauria: città 10 e lode”

 COMUNE DI MARISCO NUOVO

 COMUNE DI MARSICOVETERE

Piccolo paesino di origine romana dove ancora oggi esistono i ruderi dell’antica civiltà. Il nome del paese si deve ad una colonia di Marsi, antico popolo originario della Marsica, territorio dell’Abruzzo. Questi scesero nella valle del fiume Agri per cercare dimora. Divenne contea nell’anno 1000 e successivamente fu feudo di vari signori. Oggi il paese, posto in posizione panoramica, possiede due borgate: Villa d’Agri, la zona più sviluppata commercialmente, e Barricelle, zona in cui sono diffuse piccole aziende ortofrutticole e zootecniche. Molto bella nel paese è la chiesa madre dei Santi Pietro e Paolo che custodisce nel suo interno una scultura lignea del XIV sec. raffigurante la Madonna col Bambino e due leoni in pietra che sostengono un’acquasantiera del XVI sec. Vi sono conservate anche alcune tele di scuola napoletana del 1700. La parte antica del paese è costellata da palazzi gentilizi, tra cui Palazzo Piccininni, con portale e loggiato in pietra.

 

CONVENTO DI SANTA MARIA DI COSTANTINOPOLI

 

All’ingresso del Borgo c’è il convento di Santa Maria di Costantinopoli, oggi abbandonato da parte dei religiosi dopo la soppressione degli ordini monastici e a causa dei frequenti terremoti verificatesi nel corso dei secoli.

 

 

PALAZZO PICCININNI

 

Tra i palazzi signorili ricordiamo il palazzo Piccininni, un tempo residenza dei Caracciolo, forniti di portali in pietra locale, opera di scalpellini marsicovetresi che un tempo animavano il borgo lavorando nelle numerose botteghe; il palazzo Piccininni, un tempo residenza dei Caracciolo, con ricco portale in pietra finemente scolpito con elementi decorativi barocchi.

COMUNE DI MOLITERNO

Il paese è arroccato intorno al Castello feudale, di epoca tardo-angioina. Moliterno fu fortezza longobarda e nel XVIII sec. fu sede di un’importante scuola di medicina. Il nome del paese trae origine dalla Torre Merlata, rappresentata anche nello stemma del comune. Tale torre, considerata come Moles Eterna, fu per questo chiamata prima Moleterna e poi Moliterno. Nel centro storico del paese si può ammirare il castello di origine longobarda, opera imponente con due torri ed un mastio merlato. Tra le varie chiese del paese è da visitare la chiesa dell’Assunta con facciata settecentesca. Ricca di opere d’arte è la chiesa di Santa Croce, di origine francescana, risalente anch’essa al 1600, conserva altari barocchi, un crocifisso in stile gotico del XVII sec., ed un reliquario in legno di noce. Pittoresche sono le stradine di Moliterno, lungo le quali si possono ammirare eleganti Palazzi come: Palazzo Lovito, Palazzo Gilberti e  Palazzo Valinoti. Il piccolo centro è noto per la produzione del pecorino di Moliterno .

CASTELLO E LA TORRE SAN NICOLA

Il castello sorge su uno sperone roccioso a 880 m. sul livello del mare. La costruzione del castello, secondo lo storiografo Giaco­mo Racioppi, è avvenuta nel XII° sec., al contrario delle affermazioni della maggior parte degli studiosi, che la ritengono avvenuta tra l’VIII° e il IX° sec., in epoca longobarda. Prova di quest’ultima tesi è la torre longobarda, primo nucleo del castello. Successivamente i Normanni, la cui presenza è testimoniata dalla torre quadrata, costruirono il resto del castello,  edificandolo intorno alla torre longobarda. In seguito, ogni signore,  dall’epoca dei normanni fino a noi, ha aggiunto qualcosa e certo ora il castello conserva ben poco o nulla dell’antica costruzione. La massa dell’edificio, come appare oggi, è una costruzio­ne seicentesca, ma molte modifiche le sono state apportate attorno al ’700 e forse anche nei primi dell’800. Si arriva al castello salendo per via Francesco Lovito e vi si entra attraversando un portone ad arco romano, orientato verso sud. L’ampio cortile, che troviamo appena varcato l’ingresso, è circondato da un muro di cinta, che si prolunga per tutto il lato di mezzogiorno, fino ad una torre quadrata ad est, ed una torre bassa e rotonda ad ovest, riunendosi alla facciata con una serie di archi, che formano un loggiato cinquecen­tesco. Dalla torre longobarda, che si unisce alla facciata, partendo dalla torre bassa e rotonda, si aprono due ingressi: il primo immette nel secondo cortile e il secondo nelle stalle, nelle quali sono, ancora, visibili le nicchie delle mangiatoie.

La torre longobarda è alta 25 metri, ha un diametro di 8 metri ed è sormontata da merli guelfi quadri, andati per lo più distrutti. Internamente, è costituita da tre piani, ognuno dei quali, è formato da una sola stanza , ricevente luce da una sola finestra. La stanza del pianterreno era adibita a carcere, mentre alle altre stanze, si accedeva mediante una scala a chiocciola. Il secondo cortile, più piccolo del primo, mostra uno spettacolo di profonda desolazione: vi sono dappertutto rovine ed è quasi impossibile ricostruire la disposizione delle stanze. Oltre alle stanze del principe e dei suoi ospiti, alle stalle, alle cucine, alle carceri, ai locali adibiti a magazzini per le merci, alla cappella privata, il castello possedeva, anche, una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. L’ultimo proprietario del Castello fu Domenico Cassini, che l’acquistò nel 1827. Questi rimise il Castello in ottime condizioni di abitabilità, tanto da trasformarlo in collegio nel 1892 con la direzione del Prof. Antonio Frabasile. Il collegio fu frequentato da molti studenti moliternesi e da alcuni allievi provenienti da Potenza. Le lotte intestine e le beghe paesane, causarono nel 1894, la fine di questa istituzione e il sopra citato Domenico Cassini distrusse vandalicamente il Castello vendendone persino gli infissi. Esso fu poi venduto ai Padula e da questi ultimi fu ceduto ai Comune di Moliterno per la cifra simbolica di lire mille. E’ stato, in seguito, dichiarato “monumento d’interesse nazionale” e sono stati eseguiti dei parziali lavori di restauro esterno alla fine degli anni 70. Attualmente è in fase di progettazione una ulteriore fase di restauro.

EX CONVENTO DI SAN DOMENICO

I domenicani, fin da quando dimoravano a San Nicola in Pantanellis, avevano costruito a Moliterno, sulle mura del paese, si suppone intorno al 1510, una cappella dedicata alla Madonna del Rosario ed un convento conosciuto con il nome di grancia della Serra, che usavano come punto d’appoggio quando, venivano a Moliterno, per svolgere il ministero religioso o per affari. La chiesa attuale del Rosario non è altro che la vecchia cappella che fu ricostruita più grande nel 1616, a tre navate, come si vede ancora oggi: la centrale è sormontata da una volta a botte, mentre quelle laterali da volte a crociera. Da un atto pubblico rogato dal notaio Nicola Dalessandri nel 1762, si rileva che i Domenicani comprarono buona parte del palazzo di Oronzo Petrocelli, adiacente alla chiesa. Poi, su progetto di Gaetano Azzolini, diedero inizio ai lavori di ristrutturazione, per ampliare la vecchia grancia e procedere alla costruzione di un più vasto locale da adibire a noviziato. Nella chiesa vi sono tre altari di legno scolpiti con dorature in oro zecchino, un pregevole coro ligneo, che risale al 1543 ed un organo a canne della rinomata ditta Carelli, ristrutturato nel 1992. Numerosi sono i dipinti molto antichi, trai quali ricordiamo una Madonna circondata da quindici medaglioni, che rappresentano i quindici misteri del Rosario, trafugati negli ultimi tempi, due tele del ’500 in una delle quali si ammira il ritorno della Sacra Famiglia a Nazareth e nell’altra è rappresentata la figura di San Domenico. Un’altra tela interessante risale al 1700 ed in essa è raffigurata la Madonna con il Bambino Gesù, vezzeggiato da Santa Rosa da Lima. Come abbiamo precisato, l’antica cappella era dedicata alla Madonna del Rosario, però, i Domenicani ottennero dalla Santa Sede che il nuovo patrono di Moliterno fosse San Domenico di Guzman. Il convento possedeva una ricca biblioteca corredata di mobili dorati del secolo XV e XVI. La facciata della Chiesa del Rosario è esposta a nordovest. Su di essa vi sono tre entrate, delle quali quella centrale è la più alta ed ampia. La porta centrale è sormontata da una volta, mentre quelle laterali da due finestre. Al centro della facciata vi è un rosone in pietra e sopra emerge il campanile. In seguito alla soppressione degli ordini religiosi, il convento insieme all’orto murato fu venduto all’asta e finì nelle mani di Giuseppe Albano. In seguito, fu acquistato dagli eredi di mastro Gerardo Gianpietro, che, con poche modifiche, lo adattarono ad abitazione. Il locale dove risiedevano i novizi, prima fu usato dal Governo, come magazzino dei generi di monopolio, ma, in seguito, fu acquistato dalla famiglia Gianpietro che vi apportò profonde trasformazioni. Ancora oggi si può ammirare il chiostro con al centro un pozzo del 1614, un lavatoio in pietra ed una loggetta a tre archi. I libri ed i mobili della ricca biblioteca sono andati, purtroppo, dispersi e buona parte dei beni immobili posseduti dai Domenicani furono venduti all’asta e finirono nelle mani del demanio. Dopo il concordato stipulato nel 1815 tra il re di Napoli e la Santa Sede, la chiesa fu assegnata al vescovo diocesano di Marsico Nuovo dal quale dipese la parrocchia fino al 1882, poiché la Chiesa Madre non era stata ancora aperta al culto. Negli ultimi tempi la chiesa è stata ristrutturata ed attualmente, essendo chiusa la Chiesa Madre, per lavori di restauro, le funzioni religiosi vengono celebrate nella Chiesa del Rosario.

Testo tratto da “Moliterno: un paese da scoprire” del Gruppo Animazione Estate 1995

 GLI EDIFICI STORICI

Palazzo Tiberio Petruccelli, sito in Via Carmine che ora appartiene alla famiglia Latorraca. Palazzo Parisi, sito in Via S.Pietro, Costruito nel 1600 per ordine del barone Alessandro Parisi, fu adibito a collegio per 30 anni. Alla morte del barone, la baronessa Parisi trasformò il palazzo in casa estiva e, siccome era sposata con l’avvocato Giuseppe Fruguglietti, il palazzo cambiò nome e divenne Palazzo Fruguglietti.

Palazzo De Caro, già Parisi, sito nel rione S. Pietro, venduto e diviso. Palazzo Racioppi, già Parisi, sito in Corso Umberto I°, ora chiamato Mastrangelo. Palazzo Valinoti , sito in piazza Vittorio Veneto, di pro­prietà comunale. Palazzo Mobilio-Giampietro, sito in Via Rosa­rio di proprietà degli eredi. Nella seconda metà del 1500 i padri Domenicani possede­vano la chiesa del Rosario, ma costruirono anche una casa dell’ordine affiancata alla chiesa. Nacque così, una casa molto grande con tutti gli accessori dei conventi, con le celle rivolte verso oriente e con un refettorio. Parzialmente trasformato per adattarlo ad uso residenziale, è possibile ammirare, quasi per niente alterato, il chiostro con volte a crociera e colonne, al centro vi è un pozzo del 1610 con sopra un arco di pietra su cui è incisa una scritta: “SOLI DEO” che vuol dire SOLO DIO.

Palazzo Parisi,  di proprietà comunale. Alla fine dell 1800 fu fatto costruire dalla famiglia Parisi e precisamente da Vincenzo Parisi. Vi era un piano terra, un primo piano e degli interrati che si affacciavano in Via Tempone sotto il muro della villa. Dove oggi troviamo i gabinetti pubblici allora vi era un sottopassaggio per far uscire le bestie da soma e da trasporto. Alla sua morte fu ereditato da una zia, donna Ambrosiana, amante del lusso che la spinse verso il fallimento costringendola a vendere il palazzo. Una parte fu presa in affitto da Pietro Petruccelli detto “O Paone”, mentre i locali sotterranei furono utilizzati come falegnameria da Pietro Aiello e Vincenzo Lapadula. Nel 1947 fu istituita la scuola media, per interessamento del prefetto De Biase e in collaborazione con il Comune che aveva acquistato il palazzo, lo aveva ristrutturato per adibirlo a scuola. Attualmente il palazzo, è in fase di ristrutturazione. Palazzo Galante, sito nella salita della Chiesa Ma­dre. Palazzo Giliberti, prima convento, attualmente sede Comunale. Palazzo Metelli, sito in Via Roma, appartiene ancora alla famiglia Metelli. Palazzo Di Maria, sito in Via S. Croce, di proprietà Comunale. Palazzo Doti, sito in Via Nazionale, appartiene, in parte, ancora alla famiglia Doti Palazzo Bisignano, sito in Via S. Rocco, venduto dalla famiglia Bisignano alla famiglia De Gerardis, ora di proprietà privata. Palazzo De Bonis, sito in Corso Umberto I°. Palazzo Tortorelli, sito in Via S. Pietro, ora Darago. Palazzo Doti, ora Rosa Orlando De Nito, sito in Via S. Antonio. Fu in origine sede dell’eremo dei lazzaristi, poi fu occupato dall’ordine dei frati minori di S. Antonio di Vienna, quando l’ordine religioso fu soppresso, il palazzo fu abitato dalla famiglia Doti che lo ingrandì. Solo nel 1900 divenne proprietà della famiglia ROSA ORLANDO DE NITO, che lo donò al Comune, affinché vi si creasse un asilo infantile. Palazzo Bianculli, sito in Piazzetta Bianculli, venduto e diviso. Palazzo Frabasile, sito in Via Mazzini, poi chiama­to Bianculli, ora Sansobrino. Palazzo Padula, originariamente fu proprietà della famiglia Petruccelli della Gattina, passò ai Padula e dopo, oltre 70 anni, fu venduto a diversi acquirenti che vi hanno eseguito una ristrutturazione interna, cercando di non modificare eccessivamente la facciata.

 

Palazzo Lovito, sito in Via Lovito, ospitò Giuseppe Zanardelli, Presidente del Consiglio dei Ministri. Lungo la stessa via vi è un palazzo con portale ad arco di pietra, dove nacque il pittore Michele Tedesco. Palazzo Ghidimo, sito in Via Lovito, attiguo al palazzo Lovito. Palazzo Gargia, sito in Via Roma.

COMUNE DI MONTEMURRO

Le origini del paese risalgono alla distruzione di Grumentum, quando i profughi di questa città cercarono riparo nel territorio della Val d’Agri. Il nome sembra aver avuto origine da “Castrum Montis Murri”, trasformato successivamente in Montemurro. Nel medioevo il paese, dapprima sede di una comunità basiliana appartenne a diverse famiglie nobiliari. Nel 1907 una frana colpì il paese e costrinse molti abitanti ad emigrare. Molto interessanti, nella parte alta del paese, sono la chiesa e il convento francescano di Sant’Antonio (1635). All’interno del convento si ammirano vari affreschi riproducenti episodi della vita di Sant’Antonio e di San Francesco. Nella chiesa sono conservati una cornice lignea con tela datata 1666, un quadro del 1700 raffigurante la Natività ed una Pietà del 1800. Il paese di Montemurro è noto per aver dato i natali al poeta Leonardo Sinisgalli. Il territorio è circondato da suggestivi boschi dove nel periodo autunnale si possono raccogliere castagne e varie specie di funghi.

 

 EX CONVENTO DEI DOMENICANI

 

Sulle rovine del Castellum Montis Murri sorse nel 1442 il Convento dei Domenicani, intorno al quale si formò il nuovo centro abitato. Col decreto napoleonico della soppressione degli ordini religiosi, il convento fu chiuso e i locali diventarono la sede del Municipio e d’altri uffici pubblici. La chiesa conventuale di San Domenico invece, la più antica del paese, rimase aperta al culto. Attualmente è stata data in comodato per trent’anni al Comune, che l’adibirà a Parco Letterario Leonardo Sinisgalli, il poeta ingegnere di Montemurro, sempre impegnato in una poliedrica attività culturale, che con le sue poesie ha reso immortale il fosso di Libritti ed altri particolari di Montemurro, affascinanti per lui. Era solito infatti dire: Io sono nato in un paese che non è bello, ma è il mio. Le pareti del Municipio (ex convento  domenicano) sono abbellite da quadri di pittori di Montemurro: Maria Padula, Antonio Liuzzi, Mario Venece. C’è anche una moneta di gesso, realizzato da Antonio Masini di Potenza, con l’effigie di Leonardo Sinisgalli che, allontanandosi dalla sua terra, divenne a Milano un protagonista della civiltà delle macchine e della cultura tecnologica.

 

 CASA DEL POETA LEONARDO SINISGALLI

 

In Corso Garibaldi si notano la Casa di Leonardo Sinisgalli, sulla cui facciata in una lastra marmorea è incisa la famosa poesia Monete rosse.

 

 MASSERIA CRISCI

 

La masseria ha svolto il ruolo di casa e azienda, perché spesso ospitava i proprietari e la famiglia del massaro con i lavoratori subalterni; l’organizzazione domestica delle masserie rispondeva pienamente alle strutture paternalistiche e comunitarie dei rapporti sociali vigenti al suo interno. Una caratteristica particolare della masseria era il “casone”, che consisteva in un grande locale provvisto di focolare con camino e una serie di letti, lungo le pareti, un fabbricato o un locale adibito a dimora temporanea dei braccianti. A Montemurro e paesi limitrofi questa realtà di vita comunitaria si ripeteva puntualmente ogni anno, al tempo della raccolta del grano, era la soluzione abituale dei mietitori forestieri, che si recavano nelle masserie e si accampavano o si riposavano nei “casoni”. Nel 1900 la masseria Crisci è stata utilizzata come azienda di trasformazione e vendita di prodotti caseari in quanto posta ai margini della viabilità principale del fondo valle dell’Agri che collegava i vari centri abitati. Successivamente con la costruzione dell’invaso artificiale della diga del Pertusillo si è trovata inserita in un contesto paesaggistico unico e di notevole bellezza che ne ha determinato un punto di riferimento di tutto il turismo della Valle dell’Agri. 

COMUNE DI NEMOLI

 L’origine del paese è databile attorno all’anno 1000. In seguito appartenne come casale a Rivello, dominato dai Benedettini di Lauria. Originariamente si  chiamava “Bosco” e solo nel 1833 divenne comune autonomo col nome di Nemoli. Di pregio artistico è la chiesa di Santa Maria delle Grazie, protettrice del paese, nella quale sono conservati la statua lignea della Madonna risalente al XIV sec. ed un’acquasantiera del 1512. Non molto distante dal centro è situato il pittoresco lago Sirino, ai piedi della Serra Roccazzo. Il territorio è ricco di colture irrigue e di insediamenti rurali. Inoltre è molto sviluppato l’artigianato del ferro battuto, del rame e del legno.

 

PALAZZO FILIZZOLA

 

Il palazzo “Filizzola, detto comunemente la “Casa dei Signori“, sorge in Via Regina Margherita ed è un grosso palazzotto signorile, realizzato in più riprese dalla famiglia egemone del paese, i Filizzola, inizialmente proprietari terrieri e, successivamente imparentati con le famiglie più importanti della zona. Uno dei Filizzola fu protagonista dei moti del 18 agosto 1860 a Potenza e fu nominato successivamente da Garibaldi “Sovrintendente della Calabria Citeriore”. L’edificio, piuttosto tozzo nel complesso, è rispondente alle esigenze di una famiglia della borghesia contadina. Nella parte più antica risale ai primi decenni del ‘600, mentre alla fine del ‘700 fu impreziosito di una bella facciata con portale in pietra locale, scolpita, scalone d’onore ed una serie di archi a tutto sesto. Interessante un tondo in marmo bianco di una Madonna col bambino che faceva bella mostra a capo della scala. Attualmente, dopo gli ultimi terremoti, è in rovina.”

 

 Bibliografia:

 

Giovanni Ferrari, Nemoli: tra storia e leggenda

COMUNE DI PATERNO

 Il paese sorge nella fertile pianura della Valle dell’Agri. Originariamente la popolazione era sparsa nel luogo dove oggi sorge la chiesa Madre dedicata a San Giovanni Evangelista, mentre nelle campagne circostanti erano sparse le case dei contadini suddivise in 12 frazioni. In seguito alle continue invasioni, gli abitanti si aggregarono a quelli di Marsiconuovo ed il territorio ne divenne frazione fino al 1973, anno dal quale il comune fu autonomo. Il nome di Paterno ha avuto origine dal termine “Paternicum” che significa terra dei padri. In località Piazzolla si trova la chiesa di San Bartolomeo, di proprietà dei Rautiis di Tramutola, che è collegata ad una cappella privata dove sono conservati dipinti del 600. L’attività più praticata dalla popolazione è l’agricoltura, di cui nota è soprattutto la produzione di fagioli.

 COMUNE DI PIGNOLA

Il paese è situato su una collina, a pochi chilometri da Potenza. Il suo nome è citato per la prima volta nel XII sec. come “Vineolae”, derivato dal termine latino “vinea” (vigna). Interessante è la chiesa Madre, ricostruita nel XVIII sec., su una vecchia struttura. L’interno è caratterizzato da una sola navata, con otto cappelle laterali e varie tele, di cui tre sono opera del Pietrafesa. Nelle vicinanze dell’abitato si trova la chiesa della Madonna del Pantano, nel cui interno sono conservate una statua lignea della Madonna col Bambino decorata in oro zecchino e due tele ad olio del 1700 del pittore Filippo Mangere. Nel territorio di Pignola è possibile visitare la Riserva Naturale Regionale ed Oasi del WWF presso il “Lago Pantano”. La sua vicinanza al Bosco di Rifreddo, stazione di soggiorno estivo ed invernale, ed agli impianti sciistici di Sellata, fa di essa un centro di grande interesse turistico. Tipica la cosiddetta “Uglia” di Pignola. E’ uno dei centri lucani, con Potenza, Picerno, Tito e Trecchina, dove si parla il galloitalico, probabile frutto di migrazioni (XIII sec.) di popolazioni provenienti dal settentrione d’Italia (Monferrato) che si fusero con le comunità locali (G. Rohlfs).

 

MULINO AD ACQUA SUL TORRENTE FIUMICELLO

 

L’iniziativa, promossa dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Basilicata, vuole dare l’opportunità di scoprire una categoria di beni culturali poco conosciuti e valorizzati presenti nel territorio regionale, legati allo sfruttamento delle risorse idriche. In località Ponte Mallardo di Pignola (PZ) si trova l’antico “molino” ad acqua della famiglia Cammarota sul torrente Fiumicello che, attraverso un particolare intervento di recupero funzionale, è stato riportato alla sua connotazione di origine e rappresenta un’importante testimonianza di architettura rurale tipica della “civiltà contadina”. Nell’edificio annesso al mulino, adibito ad abitazione del mugnaio, sarà allestita un’esposizione di attrezzi tipici dell’arte “molitoria”, diffusa nell’Ottocento in tutta la valle del fiume Basento.

 COMUNE DI RIVELLO

Il centro fu originariamente abitato da una comunità basiliana e, per la sua strategica posizione geografica, fu per molto tempo conteso fra Longobardi e Bizantini. Nel periodo di dominio normanno, Rivello fu sotto il controllo di Lauria e nel 1268 prese attivamente parte alla rivolta ghibellina. L’antico borgo è veramente suggestivo da visitare. Interessanti da visitare sono il Convento di S. Antonio da Padova, la chiesa di Santa Barbara e la chiesa di San Michele dei Greci, in stile bizantino e contenente un polittico di scuola napoletana del 1614. Di grande interesse artistico è l’ex Convento dei Frati Minori Osservanti (XV sec.), al cui interno sono conservati un coro ligneo del XVII sec. opera di Ilario Montalbano ed intagli che rappresentano scene di vita e mestieri locali. Nei tempi remoti il paese era noto per la lavorazione del rame.

PALAZZO MEGALE ED I PORTALI

Palazzo Megale situato tra Via Santa Maria e l’imbocco di Via Roma. Le sue origini risalgono all’anno 1000, ma raggiunse il periodo di massimo splendore nel 1700, quando il conte Giovan Battista Megale sposò la Baronessa Curcio di Polla, nipote diretta del Principe Caracciolo di Napoli di cui si conserva ancora un ritratto che la mostra ai posteri in tutta la sua bellezza. Il palazzo fu anche dimora di vescovi, poiché vi furono nella famiglia alcuni appartenenti che intrapresero la carriera ecclesiastica. A testimonianza di ciò fanno parte della struttura una cappella gentilizia esterna adiacente e una cappella interna dedicata alla Madonna del Rosario, dove membri della famiglia, fino al 1968, hanno ricevuto alcuni Sacramenti. Lo stemma di famiglia rappresentante una stella filante e un dromedario sovrastati da una corona, attestante la nobiltà del casato e dichiarato patrimonio dell’umanità, evidenzia le origini antiche e orientali dei conti Megale. Esso si trovava originariamente sul poderoso portale in pietra della grande porta che serviva da accesso alle circa cento stanze che costituivano la sontuosa dimora della famiglia. Da alcune di esse era possibile raggiungere il grande loggiato con balaustra a colonnine da cui era ed è visibile il paesaggio circostante. Ad un suo lato si trova il balcone in pietra dalla ringhiera in ferro battuto con motivi floreali dichiarato anch’esso patrimonio dell’umanità. Di fronte c’era l’alloggio dei coloni che lavoravano la proprietà terriera dei signori. Oggi l’ingresso principale si trova dove un tempo era la foresteria ed immette nell’abitazione dove vive la famiglia Altieri, discendente dei conti Megale. Tra i vari ambienti che costituiscono il palazzo spicca in particolare il salone di ricevimento dove, nascosta da un finto armadio, vi è la cappelletta privata. Esso è arredato con salottini, tavolini e consoles del primo novecento dove sono posate pendole, ninnoli e antiche e rare porcellane; vi è inoltre un pianoforte d’epoca. Alzando lo sguardo si può ammirare lo splendido soffitto affrescato al cui centro si trova, contornato da un grande festone, l’Aurora che incendia il cielo con una fiaccolata. Agli angoli di tale riquadro sono dipinti quattro medaglioni rappresentanti le Arti 

COMUNE DI SAN CHIRICO RAPARO

 Belle: la scultura e l’architettura nella persona di Michelangelo Buonarroti, la pittura attraverso Raffaello Sanzio, la letteratura nella figura di Giosuè Carducci e la musica da Giuseppe Verdi. Le volte istoriate mostrano episodi della Divina Commedia fra cui la scena iniziale dell’Inferno, cioè Dante nella selva oscura insieme a Virgilio e le tre fiere, l’arrivo del sommo poeta nel Purgatorio e l’incontro con Carlo Martello descritto nell’VIII canto del Paradiso. L’autore degli affreschi fu il giovane pittore Lanziani di Lauria che con essi ebbe modo di farsi apprezzare e di ricevere così l’incarico di dipingere le volte della chiesa di San Nicola.Attualmente palazzo Megale è in fase di ristrutturazione a causa dei danni subiti nel terremoto del 1998. Gli stemmi sono mancanti perché messi in custodia dagli stessi proprietari per scongiurare il pericolo di furti.

 

 

Alcune fonti ritengono che il centro sia sorto sulle rovine dell’antica Polisantria. Il suo nome sembra sia derivato da San Quirico di Konya, molto venerato dai monaci orientali e martire ai tempi delle persecuzioni di Diocleziano. Alla metà del 1700, San Chirico era uno sviluppato centro per le manifatture tessili. Infatti nel paese esisteva un laboratorio per la tessitura del cotone e della ginestra. Il paese presenta diverse ed interessanti emergenze architettoniche. Caratteristica, nel territorio, è la sorgente del torrente Trigello, il cui corso d’acqua scompare in autunno e riappare in primavera, fenomeno dovuto alla natura carsica del terreno. Alle pendici del monte Raparo sgorgano due sorgenti di acque sulfurea: la Santa Quaranta e la Cortignano, efficaci per la cura delle malattie della pelle e dei reumatismi.

 

PALAZZO BARLETTA

 

Ai piedi del colle del castello c’è il centro storico, costituito da un susseguirsi di case, rampe e alcuni palazzi signorili con portali in pietra. Tra questi palazzo Barletta che custodisce, nelle stanze riccamente decorate, arazzi e mobili d’epoca.

 

 ABBAZIA DI SANT’ANGELO

L’Abbazia  greco-bizantina di  Sant’Angelo  è  un  monastero costruito nel X secolo da un gruppo di monaci dell’ordine di  San  Basilio,  guidati  da  San  Vitale,  che  trovarono  nella grotta   di   monte   Raparo,   circondata   da   vegetazione rigogliosa,  una  dimora  stabile  e  sicura  per  sfuggire  alle persecuzioni  iconoclaste  che  vessarono  molti  nuclei  di monaci   bizantini,   costretti   a   cercare   per   tale   motivo rifugio nelle zone più interne della Calabria, della Puglia e della  Basilicata  (come  la  zona  del  Raparo),  considerata  a quei   tempi   inaccessibile.   L’abbazia,   costruita   su   una grotta,  era  una  costruzione  a  pianta  rettangolare  ed  era sormontata    da    una    cupoletta.    Da    alcuni    anni    la Soprintendenza   ai   Beni   Culturali   della   Basilicata   ha sottoposto  a  lavori  di  restauro  e  recupero  sia  l’abbazia che   la   grotta   sottostante,   allo   scopo   di   valorizzarle artisticamente e di farne un centro di studi sulla storia del monachesimo basiliano del Mezzogiorno. L’Abbazia è Monumento Nazionale dal 1927 dia dagli stessi proprietari per scongiurare il pericolo di furti.

COMUNE DI SAN MARTINO D’AGRI

San Martino, secondo un’antica tradizione storiografica, ha avuto origine, come gran parte dei paesi circostanti, dalla distruzione di Grumentum. Il paese appartenne ai Sanseverino di Bisignano fino al 1565, anno in cui, a causa della crisi della feudalità, il territorio fu venduto a Sifola di Trani e rimase in suo potere fino al 1806; successivamente appartenne alla Contea di Chiaromonte, poi ai Templari e infine ai cavalieri di Malta. Nel XV sec., San Martino fu ripopolato da una colonia di profughi albanesi. Molto bello e caratteristico è il centro storico, fatto di piccole stradine, casette in pietra, ripide scalinate e palazzi nobiliari arricchiti da loggette e portali decorati. Il principale monumento cittadino è la Chiesa di San Francesco, edificata nel 1512 e ristrutturata nel 1714, al cui interno è possibile ammirare il secentesco affresco della Crocifissione con la città di Gerusalemme di Giovanni De Gregorio, detto il Pietrafesa e una statua lignea della Madonna della Rupe, realizzata nel XVII secolo su copia dell’antica Madonna lignea, d’origine bizantina. A pochi chilometri dall’abitato è sito il Santuario della Madonna della Rupe, sul monte Raparello, una costruzione in pietra in cui viene venerata per alcuni mesi durante l’anno la statua della Vergine.

PALAZZO SIFOLA

Nella parte più alta e più antica del paese si nota  il Palazzo Baronale Sifola, modificato in gran parte nelle varie ristrutturazioni ed attualmente abitato da dieci  famiglie.

 COMUNE DI SARCONI

Il suo passato è legato al centro di Grumentum, di cui secondo alcuni studiosi sarebbe stato un sobborgo. Nel territorio sono stati trovati parecchi reperti archeologici, in particolare resti di sepolture appartenenti probabilmente a soldati romani e cartaginesi che si scontrarono nel 215 a.C. in una violenta battaglia. Nel centro storico del paese sono da vedere gli antichi palazzi con portali in pietra e balconi in ferro battuto. Interessante è la chiesa di Santa Maria Assunta, costruita agli inizi del 1900 in sostituzione di quella rinascimentale distrutta dal terremoto del 1857. Sarconi è circondato da una fiorente vegetazione e presso il bosco Farnie, caratterizzato da piante ad alto fusto, vi è la suggestiva fontana “Amelina”, meta di molti turisti nel periodo estivo. Caratteristica importantissima dell’economia del paese è la coltivazione di fagioli di cui esistono diverse ed apprezzate qualità. Infatti nel periodo estivo si tiene la sagra del fagiolo durante la quale si possono gustare anche altri prodotti locali come miele e formaggi.

ACQUEDOTTO CAVOUR

Risale al 1867. L’acquedotto per molti anni soddisfece le attese e svolse il compito ad esso affidato,irrigazione dei terreni nell’agro di Sarconi e Moliterno, ma nel 1935 necessitarono interventi di manutenzione straordinaria e di miglioramenti generali per ammetterla a godere dei benefici previsti da alcuni provvedimenti legislativi. Il canale di irrigazione, alto sul suolo in una serie di archi in muratura continui e armoniosi, nella parte terminale dell’opera, nei Giardini, entrò a far parte del panorama del nostro paese. Ancora oggi è possibile ammirarne un piccolo tratto, sopravvissuto all’abbandono, i cui ruderi, protetti da interventi di conservazione, bastano a conservare il ricordo dell’opera e l’importanza per l’epoca dell’iniziativa.

 MULINI AD ACQUA

Nell’area sottostante il centro abitato sorge un mulino recentemente ristrutturato e acquisito tra i beni del Comune. Luogo di storia e di tradizioni, scenario di eventi culturali e di set cinematografi ci, è il fulcro del neonato Parco Fluviale di

Sarconi area in cui la natura e l’identità culturale del paese si fondono.

L’opificio è di grandi dimensioni: il canale di convoglio dell’acqua presenta una diramazione che permette di deviare l’acqua in due cisterne collegate ad altrettante macchine idrauliche situate nel piano seminterrato.

Nel comune di Sarconi esiste anche un altro mulino ben conservato e di proprietà privata. Si tratta di un mulino appartenente alla Famiglia Lauria, ubicato all’ingresso del paese e alimentato dalle acque del torrente Sciaura. Il mulino attivo dalla metà dell’Ottocento, fu acquistato dalla famiglia Lauria e da essa gestito fino ad un cinquantennio fa. All’interno sono presenti due impianti utilizzati uno principalmente per il grano e l’altro per gli altri cereali. L’opificio è stato ristrutturato in parte e l’intenzione è quella di razionare gli impianti a fini didattici.

COMUNE DI SASSO DI CASTALDA

Il centro si chiamava originariamente “Pietra Castalda”, cioè rupe fortificata, come è ricordata in un documento del 1068. Fu un’antica roccaforte normanna riedificata nella metà del XII sec. Nel corso dei secoli si sono succedute le diverse dominazioni di signori feudali fino ai Conti Gaetani d’Aragona che vi edificarono l’imponente Castello, di cui oggi restano pochi ruderi. Degna di interesse è la chiesa parrocchiale dell’Immacolata con un particolare portale e nel cui interno si possono ammirare una statua trecentesca raffigurante la Madonna col Bambino, alcune tele del 1400, un confessionale con intagli rinascimentali e bellissimi affreschi del 1600. Non lontano dall’abitato si arriva alle cime delle montagne circostanti, dalle quali si gode una visione panoramica del territorio. Nella zona si sono sviluppate soprattutto le attività silvo-pastorali.

PALAZZO D’ARAGONA

Tra i luoghi storici e caratteristici, Sasso può vantare un modesta ricchezza nonostante sia un piccolo centro. Il palazzo esteticamente più bello è senza dubbio, il palazzo dei conti Gaetani D’Aragona, situato in piazza del Popolo. Riconoscibile grazie allo stemma nobiliare inconfondibile, in alto sul portone centrale. Palazzo di epoca ottocentesca, solido, e ben curato nonostante gli anni e il terremoto degli anni 80. Ancora oggi nelle mani della famiglia nobiliare, il palazzo è quindi di proprietà privata, ma non è l’unica costruzione antica del Paese.

 COMUNE DI SATRIANO DI LUCANIA

 Pietrafesa (Pietrafixa) nel XII secolo era un piccolo borgo rurale, sorto a ridosso di un promontorio roccioso, collocato a valle rispetto all’abitato dell’antica Satrianum. Il nome Pietrafesa, (pietra spaccata) è strettamente legato alle caratteristiche geomorfologiche del luogo su cui sorgeva. Il Piccolo borgo rurale con la crescita della popolazione, successiva alla distruzione dell’antica Satrianum, si estese su altre due “rocce” costituendo un suggestivo ed unico agglomerato urbano. Il borgo, insieme all’antica Satrianum, faceva parte di un unico contado, come si evince dal Registro del servizio feudale delle province napoletane. Questo piccolo centro acquistò una propria autonomia amministrativa durante il regno della regina Giovanna II d’Angiò – Durazzo, quando si attesta che Francesco Sforza divenne Signore di Pietrafesa. Nel 1420 il feudo fu ceduto ai Caracciolo che vi governarono fino all’abolizione dei diritti feudali, sancita dalle leggi napoleoniche agli inizi dell’Ottocento. Nella seconda metà dell’Ottocento gli abitanti di Pietrafesa vollero rinsaldare il legame con la città medievale posta sull’altura. Si deliberò infatti di sostituire la denominazione Pietrafesa con il nome medievale di Satriano (di Lucania), a ricordo del fiorente insediamento antico. Oggi il borgo si dipana lungo i vicoletti sui quali si affacciano alcuni palazzi gentilizi, come Palazzo Loreti (XVIII sec.). Da visitare: il Campanile (XVII sec.) della Chiesa Madre, realizzato su disegno del vescovo (matematico, architetto e filosofo) Juan Caramuel y Lobkowitz, la cappella di San Giovanni che custodisce un affresco di Giovanni De Gregorio, detto il “Pietrafesa”, pittore manierista del ‘600 originario del posto, la chiesa Madonna dell’ Assunta (XIII sec.), la chiesa Madonna della Santissima Natività (XV sec.), il Museo Archeologico, il Museo della Civiltà Contadina ed i percorsi dei Murales, che raccontano la storia, le leggende e le tradizioni dell’antico borgo. Il Carnevale di Satriano, con “U’ Rumìt “ (l’uomo vegetale), è uno dei pochi riti arborei ancora presenti nella regione, ed è un evento che vale la pena scoprire per conoscere e vivere le tradizioni del popolo lucano.

 COMUNE DI SPINOSO

L’abitato di Spinoso come tutti i paesi della zona trae le sue origini dalla distruzione di Grumentum (tra il IX e il X sec). Gli scampati al disastro trovarono riparo alle pendici del Monte Raparo, dove già precedentemente si erano trasferiti alcuni pastori e contadini originari di Carro Nuovo, antichissimo borgo rurale. E’ qui che le due comunità si fusero dando origine al primitivo villaggio, che prese il nome di Spinoso. Dal XII sec. passò attraverso la dominazione di diversi signori fino a quella dei marchesi Spinelli. Le vie del paese sono ricche di palazzi del 1700 e 1800 con portali in pietra. Tra i più belli: Palazzo Caltieri, Palazzo De Risi, Palazzo Ranone, Palazzo Romano e Palazzo Spolidoro. Degna di interesse artistico è la chiesa di Santa Maria Assunta costruita nel 1593. Non distante dal paese si trova il lago del Pertusillo, un invaso artificiale la cui raccolta delle acque consente sia l’irrigazione dei campi, sia la produzione dell’energia elettrica.

PALAZZO CAPUTO

Molti i palazzi gentilizi di notevole bellezza, con maestosi portali in pietra di Padula e facciate in cotto proveniente da antiche fornaci locali: in Piazza Plebiscito si incrocia il palazzo delle Colonne di stile neoclassico, poi il Palazzo Romano e a pochi passi il palazzo Ranone, di stampo settecentesco, sede di mostre e incontri letterari di grande prestigio. Ed ancora Palazzo Caputo, monumentale magione con parco annesso e il Palazzuolo Romano sede nell’800 della “Scuola Romantica Spinosese”, fondata da Antonio Casale, una delle più importanti e prestigiose scuole del meridione, in cui si formarono illustri personaggi tra i quali Giacomo Racioppi e Giacinto Albini.

COMUNE DI TITO

Originariamente l’abitato sorgeva su un’altura prospiciente l’attuale zona industriale di Tito Scalo. Il sito, denominato Tito Vecchio, era abitato all’epoca della 2^ guerra punica (III-II sec. a.C.), durante la quale il console romano Tito Sempronio Gracco (da cui la probabile origine del nome) fu lungamente nella zona, prima di essere tradito da Flavio Lucano, alleatosi con i cartaginesi di Annibale e del suo luogotenente Magone, nella battaglia dei vicini Campi Veteres, secondo la testimonianza dello storico Tito Livio. Distrutto il vecchio abitato, i titesi si spostarono su uno sperone che domina la valle chiusa ad anfiteatro intorno alla fiumara di Tito. Il nuovo abitato s’incrementò in modo considerevole dopo la distruzione dell’antica Satriano (1420-1430), accogliendo parte degli abitanti scampati. I titesi furono protagonisti durante i moti repubblicani del 1799, con notevole tributo di sangue. Eroina della sommossa fu Francesca Cafarelli De Carolis che pagò con la vita dell’intera famiglia l’attaccamento agli ideali di libertà della Repubblica Partenopea. Il 27 maggio 1799, con gli altri rivoltosi, veniva giustiziata nella piazza del Seggio da una banda di sanfedisti al servizio del Cardinale Ruffo. Parte attiva ebbero durante la cacciata dei Borboni (1860) e l’adesione della Basilicata al Regno d’Italia. La piazza del Seggio presenta una fontana monumentale in pietra del XVIII sec. Sovrasta la piazza il palazzo comunale con un bellissimo arco durazzesco del XV sec. Nella parte alta dell’abitato vi è il Convento francescano (1514) che conserva notevoli opere d’arte. L’annessa chiesa di S. Antonio da Padova presenta un ciclo pittorico di Girolamo Stabile e l’altare maggiore formato da pannelli scolpiti (1^ metà del XVI sec.), tele di G. Di Gregorio (Pietrafesa) e di Antonio Stabile (XVII sec.). Il chiostro del convento fu affrescato dal Pietrafesa (1606) con le storie di S. Antonio. Poco fuori dall’abitato (Loc. Acqua Bianca) vi sono sorgenti di acque sulfuree. E’ uno dei principali centri lucani in cui si parla il dialetto galloitalico (G. Rohlfs).

COMUNE DI TRAMUTOLA

Il paese di origine romana fu anticamente “pagus” di Grumentum. Nel X sec. venne distrutto dai Saraceni e ripopolato successivamente dai Benedettini di Cava dei Tirreni. I monaci favorirono la coltura del gelso e l’allevamento del baco da seta che con il lino e la canapa svilupparono una notevole produzione tessile, per secoli base principale dell’economia del paese. Le vie del paese sono costellate da portali e loggiati di antichi palazzi nobiliari. Di interesse artistico sono la chiesa madre della Madonna dei Miracoli, nel cui interno è conservato un polittico del 1569 di Antonio Stabile, la chiesa del Rosario, con portale ligneo del 1671 opera di Linardo Laraia, decorato con Angeli e altri motivi ornamentali. Un’immagine caratteristica del paese è rappresentata dall’antico lavatoio in pietra, in cui le donne si inginocchiavano fino a pochi anni fa per lavare i panni. Le attività principali praticate nel paese sono quelle agricole e zootecniche.

PALAZZO RAUTIIS

L’edificio, ubicato in posizione di rilievo nell’ambito del centro abitato, è un interessante episodio dell’architettura del secolo XIX. Il fronte, con il portale d’ingresso archivoltato ed insieme architravato di classicheggiante “stesura” in una composizione ben integrata soprattutto con le paraste ioniche che scandiscono non solo la facciata ma l’intero edificio, è un chiaro riferimento cronologico eclettico-ottocentesco per l’adozione di schemi storici certamente collaudati, al momento molto dibattuti, che di lì a poco consegneranno il “testimone” ad un’arte meno retorica o di maniera, se si vuole, e più funzionale e moderna, ovvero l’Arte Contemporanea. Dotato di impianto pressoché regolare su tre livelli, presenta il paramento con una caratterizzazione di sobrietà cromatica che manifestamente rievoca l’edilizia borghese dell’epoca. Si leggono i segni del tempo che, però, non sono rovinosi in quanto si traducono in una patina antichizzante di sicuro fascino e suggestione, differentemente dai contigui ambienti di servizio che rivelano l’usura prodottasi. Non accusa modifiche icnografiche né di struttura che, malgrado l’edacità del tempo e la sismicità dell’Appennino lucano, si è conservata sostanzialmente integra nei caratteri fisionomici or ora espressi. Una ricercata eleganza concettuale definisce di certo l’edificio che si pone senza alcun dubbio quale dimora esclusiva del ceto abbiente, un’eleganza che ha il suo “leitmotiv” in quelle paraste ioniche su menzionate che impreziosiscono tutto quanto l’edificio. Pertanto il riscontro di un interesse per particolari svariati e la sintassi plastico-ornativa, che si basa sulla “citazione” erudita, denunciano un chiaro accento eclettico che nell’episodio lucano si attesta secondo gradevoli quanto preziose modalità, scongiurando quell’eccessivo individualismo che spesso ha etichettato l’eclettismo quale indirizzo artistico poco determinato ed originale. Il risultato è interessante e se ne coglie il pregio un po’ dovunque come nel prospetto principale per l’impostazione sicuramente ostentata (triglifi, metope, dentelli, guttae, stemma gentilizio, colonne doriche rudentate e plinti decorati) e rappresentativa per un’immagine generale di “gravitas” suggestiva, omogenea nonché affettata cui concorrono la scansione in paraste ioniche, la doppia teoria di finestre e balconi dalle elaborate inferriate, la cornice marcapiano e l’appariscente fregio a cubetti del coronamento; l’ulteriore rigorosa simmetria delle parti, per effetto di un disegno strutturale ed ornativo manifestamente curato e così voluto, non fa che confermare il riferimento metodologico surrichiamato e la qualità del metodo stesso, ampiamente collaudato e storicizzato. Per quanto riguarda i prospetti secondari vale dire che la loro fisionomia richiama quella del fronte in perfetto accordo col senso di simmetria che pervade tutto l’edificio. La concezione originaria, improntata all’eleganza integralmente leggibile del manufatto, esprime in sostanza la ricerca di un prodotto raffinato che ben si realizza in ogni dove come nel rilievo e nella linea elaborata dei balconi in ferro battuto, nell’assialità ed omogeneità delle luci per dettato di simmetria, nel paramento raffinato e distintivo nella sua concezione particolare, nelle paraste aggettanti che concludono le luci e ne cadenzano il ritmo ed, infine, nel fregio a dentelli surrichiamato che incide pure, ma in modo meno vistoso, lo stesso portale d’ingresso che sui fianchi dell’arco presenta un ulteriore fregio a denti di sega. Il medesimo riscontro formale si rileva coerentemente negli interni che rivelano un ampio vestibolo con volta a crociera e con ingressi laterali per ambienti di servizio di cui uno con volta a botte lunettata e altri di notevole ampiezza con solai ad orditura lignea, una minuta cappella di famiglia ormai dismessa ed una corte centrale nella quale prospetta una scenografica scala a tre rampe con colonne doriche, belle ringhiere ed acconce volte a crociera nei disimpegni. In definitiva in questo quadro compositivo privo di contrappunti, all’insegna di una omogeneità senza soluzione di continuità, si ravvisa l’idea costante di un disegno e di una geometria volti a realizzare un valido prodotto architettonico.

EX MULINO SAN CARLO

Il mulino, ristrutturato e di proprietà del comune, è situato all’ingresso del paese, in località S. Carlo, ed è alimentato da un monumentale acquedotto su archi.Numerosi documenti, rinvenuti in archivi pubblici e privati, registrano la forte importanza dell’acqua per l’economia del paese e la presenza di diversi opifici. Di questi però restano pochi ruderi. È ancora visibile invece il mulino costruito sul torrente Caolo. Si tratta di un opificio molto grande, costruito alla fine dell’ Ottocento, strutturato su due piani, che rappresenta uno degli esemplari più interessanti, data la presenza di una grande cisterna circolare, tipica dei mulini ad acqua dell’area, affiancata da un’altra grande vasca di raccolta. Ancora visibile l’impianto di molitura e l’abitazione del proprietario. 

COMUNE DI VIGGIANO

Situato in posizione dominante la valle del fiume Agri, il paese fu abitato da monaci basiliani ed in seguito fortificato dai Longobardi. Tra il XVII e XVIII sec. Viggiano fu tra i paesi lucani più in vista per l’artigianato del legno, in particolare per la costruzione di arpe e di altri strumenti musicali. Nello stesso periodo si diffuse la fama del Viggianese “Musicante”, infatti arpisti e violinisti girovagavano per i paesi non solo d’Italia ma anche di Francia, Germania, Inghilterra e America. Nel paese è possibile ammirare i resti del castello feudale, mentre per le vie dell’abitato sono situate antiche fontane ed interessanti palazzi con portali decorati da bassorilievi rappresentanti arpe e violini. Molto bella è la Basilica di Santa Maria del Deposito, nel cui interno è conservata la statua lignea della Madonna Nera, che la prima domenica di maggio viene portata in processione al Santuario del Sacro Monte distante 12 chilometri.

RESTI DEL CASTELLO

«Il Castello, edificato in epoca medievale per la sede del feudatario, per le sue originarie esigenze di difesa occupa il punto più alto del paese, dal quale è possibile dominare visivamente l’intero territorio circostante e l’intera Valle del fiume Agri. Situato a 1023 metri di quota sul livello del mare, recava, sul muro di levante, un marmo simboleggiante Mitra, della quale si ebbe culto a Grumento, dalle cui rovine o da quelle della contrada Marcina, sembra dovesse provenire. Nello stemma del comune si notano tre torri marrone, fondo cielo su monti color terra. Gravemente danneggiato dal terremoto del 1857, è andato gradatamente deperendo fino a raggiungere l’attuale conformazione. Restano dell’antico Castello tratti delle Mura, parti significative delle Torri Angolari e il Perimetro Murario che ne evidenzia la mole. Al di sotto di esso, sorge il Borgo con edifici di epoca medievale, come la Chiesa di S. Benedetto, case tipiche con giardini ed elementi architettonici ed artistici di particolare rilievo. Non sappiamo se fu lo stesso Berengario, generale dell’imperatore Giustiniano, o un altro feudatario a trasformare il sistema di Torri di avvistamento longobarde in quel complesso unitario che definiamo Castello, abituale Residenza del Signore ma capace anche di assolvere alle funzioni di avvistamento e di difesa e del quale attualmente rimangono solo pochi ruderi. La trasformazione in Castello delle preesistenze longobarde sembra sia stata effettuata in epoca normanna, ma ha subito delle modifiche anche in epoca angioina».

http://www.comuneviggiano.it/storia/il_castello.htm

CHIESA DI SANTA MARIA LA PRETA

La Chiesa rupestre di S. Maria la Preta o della Pietra, in contrada S. Barbara, è stata fondata nell’VIII secolo d.C., dai monaci basiliani in fuga dalla Sicilia, all’epoca occupata dai Saraceni; la struttura, venne rifatta dopo il Mille, durante il periodo gotico. E’ la più antica Chiesa di Viggiano, di cui rimangono poche rovine, sopra un ciclopico bastione di viva roccia a strapiombo sul torrente Casale, affluente dell’Agri. Intorno a questo eremo sorse il primo agglomerato del borgo viggianese, i cui abitanti furono educati al lavoro e alla devozione mariana dai basiliani. Il complesso monastico è noto per le poche notizie conservate nei Registri Angioini e relative al possesso, da parte del monastero, del casale o Chiesa di S. Giuliano nel 1269.

Successivamente, il monastero è turbato nel possesso del casale e, nel 1278, la Curia angioina interviene con un Mandatum quod non turbent abbatem et conventum Sancte Marie de Petra super possessione Casalis S. Julian. Non si conosce, come S. Giuliano sia pervenuta al monastero benedettino, ma il rapporto tra i due insediamenti merita un approfondimento. La Chiesa di S. Giuliano, ricostruita da S. Luca da Armento prima del 984[3] e che, indicata presso Agromonte o Armento, più credibilmente, sulla scorta del Borsari e dell’ Huben, va collocata nei pressi di Grumento e precisamente sotto l’attuale Saponara, ove la contrada omonima ne tramanda il toponimo. Il Ramagli ne attesta l’esistenza ancora nel sec. XVI, con la dedicazione di S. Giuliano, nella contrada de li Rungi. Il cospicuo patrimonio, annesso a S. Giuliano deve aver costituito la maggiore rendita del monastero di S. Maria de Petra. Non si conosce come questo ne sia entrato in possesso ma si potrebbe collegare al processo di latinizzazione dei piccoli monasteri italo-greci presenti tra le Valli dell’Agri e del Sinni. All’epoca angioina appartiene l’attestazione, nel 1395, di un abate Ioh. de Curio, Ab. S. Marie de Petra Ord. S. Ben (Monasticon, III, 203), che costituisce finora l’ultima testimonianza di una comunità ancora autonoma che agli inizi del sec. XVI è annessa alla Congregazione di Monte Oliveto. Non si conoscono le modalità di estinzione della comunità e neanche le circostanze in cui S. Maria de Petra perde il possesso del Casale di S. Giuliano, che nel 1562, risulta in possesso della Chiesa di S. Maria di Nazareth di Barletta. La struttura della porta superiore della Chiesa, con vecchie incisioni sugli stipiti, era così descritta dal Caputi[10]: una metà è fregiata di tabernacoli, rosette, sfingi e, alle cimase, teste umane, gigli ed un cinghiale; monumento di stile arabo del sec. XII; un’altra metà chiude l’arco a sesto acuto, in cui è solo una rosa e una croce su tre monticoli di mani e di epoche diverse, accomodandosi alle rifatte fabbriche con due sottani a volta, che ancora restano. La tradizione vi ammette gli eremiti, come solevano chiamarsi i monaci basiliani nelle solitudini della campagna, non essendovi spranna di terra libera della loro presenza e dei monaci basiliani nelle grandi immigrazioni prima e dopo dell’ottavo secolo. Nelle vicissitudini dei tempi la Chiesa passò alle dipendenze del Monastero olivetano di S. Maria della Giustizia in Taranto e, nel 1482, fu annessa all’Abbazia di Monteoliveto. E’ probabile che i monaci trovino il complesso in uno stato di degrado tale da preferire costruire una nuova chiesa di ridotte dimensioni piuttosto che restaurare l’edificio primitivo, probabilmente più ampio. L’antico complesso monastico, si riduce, all’inizio del XVI sec., alla sola Chiesa formata dall’odierna unica aula, con due portali d’ingresso, uno sulla facciata corta rivolta verso la valle, l’altro sulla facciata lunga, rivolta verso il paese. Nel 1599 fu rimossa dal padre della comunità religiosa di Taranto don Bartolomeo, il quale inflisse, il 5 gennaio 1600, la pena ai monaci della Curia T. (Terrae) Vegiani.

freccia

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